lunedì 3 settembre 2007

Manlio Rossi-Doria: un economista agrario sui generis

Ricordo di un grande territorialista, sui cui insegnamenti sarà utile ricominciare a riflettere.

Lungo tutto il 900, non sono certamente numerose le personalità di uomini di studio e di cultura la cui opera si distingua per la costante presenza di una felice e rara caratteristica: il connaturato dispiegarsi di uno sguardo analitico ad impianto interdisciplinare. Senza ombra di dubbio Manlio Rossi-Doria appartiene a pieno titolo a questa ristretta cerchia di studiosi. Rossi-Doria nasce a Roma nel 1905, figlio di un Assessore della giunta radicale di Ernesto Nathan, ma a diciannove anni le sue passioni lo conducono verso il Mezzogiorno, dove si iscrive alla facoltà di Agraria di Portici: il luogo dove il Sud viene indagato al riparo dalle grandi sintesi storiche ed ideologiche che lo descrivono come un universo compatto. Manlio Rossi-Doria studia chimica, botanica, entomologia, microbiologia, mineralogia e geologia. Il suo desiderio di conoscere al più presto in modo diretto le realtà agricole del Meridione viene realizzato con l’aiuto di Zanotti-Bianco il quale, nell’estate del ’25, lo invia in un’azienda nell’alta Val d’Agri (esattamente al Palazzo Piccininni-D’ottavio in località Peschiera- Villa d’Agri) gestita dal Prof. Eugenio Azimonti, l’agronomo lombardo di origine e meridionalista salveminiano. Azimonti dopo essersi formato al Nord come tecnico, aveva scelto nel 1905 di trasferirsi in Lucania come direttore della locale Cattedra ambulante di agricoltura e promuovere, con autentico spirito pionieristico, l’introduzione di nuove tecniche e metodi di gestione aziendale. Grazie ad una personalità tanto ricca, Manlio impara i diversi aspetti della vita contadina nella loro realtà vissuta. Così egli commenterà la sua amicizia con Azimonti :”So di avere avuto in lui più che un maestro e di aver maturato con lui in Val d’Agri l’apertura necessaria a comprendere anche gente diversa da me”. Tra il ’26 e il ’27 si rafforza in Rossi-Doria l’impegno politico attraverso i rapporti napoletani con Giorgio Amendola, Giustino Fortunato (a lui presentato da Azimonti), Enzo Tagliacozzo ed Enrico Sereni. Gli anni di studio a Portici, dal 1924 al 1928, furono anche, e forse soprattutto, l’occasione per la frequentazione assidua di Giustino Fortunato, ed assunse ben presto la funzione di uno straordinario tirocinio meridionalista. Il Mezzogiorno e la sua arretratezza, i paesaggi coperti di immensi possedimenti fondiari in mano a poche persone, incolte e incapaci di migliorare, i terreni abbandonati, la miseria contadina, una natura ostile: sono questi gli spezzoni d’immagine che si stampano nei suoi occhi e che il giovane studioso porta con sé nel carcere fascista condannato a quindici anni di reclusione. Grazie a due amnistie, torna in libertà nel 1935. Nel 1940 è nuovamente arrestato ed inviato al confino in Basilicata dove partecipa alle discussioni che conducono Eugenio Colorni, Ernesto Rossi e Altiero Spinelli a scrivere il Manifesto di Ventotene – nel partito d’Azione e poi nella Resistenza romana. Liberato alla caduta del fascismo, torna a Roma dandosi all’attività politica: al primo Convegno clandestino del Partito d’Azione (settembre 1943) è eletto nel Comitato esecutivo del partito. Nel ‘44 al Nord la guerra continua, ma Rossi-Doria ha lo sguardo concentrato sugli elementi di fondo che attraversano la società italiana, con o senza il fascismo. E ammonisce quei compagni azionisti convinti che nel ventre del Sud vibri un fermento rivoluzionario: «Ormai», scrive in una lettera a Leo Valiani, «camminavo tenendo davanti agli occhi la diversa prospettiva che la rivoluzione non ci sarebbe stata, che il vecchio avrebbe preso il sopravvento sul nuovo, che la sinistra sarebbe stata sempre sconfitta sino a quando non avesse imparato a fare i conti con la realtà e ad acquistare le doti dei cavalli dal fiato lungo». L’argomento razionale, la sua verificabilità, la costante messa in discussione dei dati acquisiti sono i cardini della sua mentalità di studioso e di politico. Rossi- Doria partecipa al dibattito sulla riforma agraria, alla fine degli anni Quaranta, spinge affinché lo Stato rompa gli assetti proprietari, distribuendo le terre a chi le avesse fatte fruttare. Giungeva intanto l'incarico per la cattedra di Economia e politica agraria a Portici e poi, nel '48, rifiutando di avvalersi delle precedenze riservate ai perseguitati politici, la nomina a professore ordinario. Critica l’opposizione dei comunisti e fra il ‘49 e il ‘52 lavora in Calabria, cura gli espropri e gli accorpamenti delle particelle fondiarie. Ma poi rimane molto scettico quando constata che la Democrazia Cristiana oltre che avviare lo sviluppo dell’agricoltura, agevolando la formazione di moderne aziende, intende soprattutto creare una truppa di piccoli contadini proprietari del solo terreno, incapaci però di renderlo produttivo, perché senza mezzi e senza cultura, una truppa che avrebbe ingrossato l’elettorato clientelare e le file dell’emigrazione (non è un caso che qualche anno dopo Rossi-Doria sarà l’autore di un rapporto-denuncia sugli scandali di quel grande baraccone che era la Federconsorzi). In Dieci anni di politica agraria nel Mezzogiorno in particolare è testimoniato lo sviluppo originale dal ’48 al ‘58 del suo pensiero attraverso una concezione riformista ormai lontana da chi sosteneva anacronisticamente una riforma agraria generalizzata senza tener conto delle specifiche realtà territoriali e della partecipazione dei contadini. La riforma agraria, secondo Rossi-Doria, deve avere per protagonista l’agricoltura contadina ma coinvolgere anche quei pur pochi proprietari agricoli aperti allo sviluppo imprenditoriale. La sua convinzione che non bastasse la semplice redistribuzione delle terre e che occorresse invece metter mano anche, tra l’altro, allo sviluppo della bonifica e della cooperazione ed alla riforma del credito agrario, non fu purtroppo accolta nella pratica. Di qui, pur nella spallata data alla proprietà latifondistica, i risultati per lo più deludenti ottenuti rispetto al progetto iniziale. Nel 1980, anno del terremoto, Rossi-Doria ha settantacinque anni, è ancora mentalmente agilissimo e non sopporta i luoghi comuni che si abbattono sulle regioni piagate, quasi un secondo sisma. Sente dire che quella è una civiltà che andava estinguendosi, infetta dalla miseria e ormai senza storia, senza destino se non quello di distruggere e sbaraccare tutto, gli uomini e le bestie, di trasferire i paesi altrove e di avviare uno sviluppo industriale tutto incentivato e che non avesse alcun rapporto con i saperi locali: una specie di tabula rasa urbanistica e sociale. È il solito Mezzogiorno di cui molti parlano, che pochi conoscono, salvo le sue classi dirigenti che lo conoscono bene ma hanno l’occhio lungo sugli affari e sui modi per conservare potere. Nello stesso anno assume la Presidenza dell’ANIMI (l’Associazione nazionale per gli interessi del Mezzogiorno d’Italia), istituzione cui era rimasto legato, istituzionalmente e culturalmente, sin dagli anni dell’adolescenza, carica che conserverà fino alla morte, sopravvenuta nel 1988.

(Le citazioni riportate sono tratte da “La gioia tranquilla del ricordo” di Manlio Rossi-Doria, ed. Il Mulino)

Il prodotto tipico del mese

Non potevamo non iniziare dai Fagioli di Sarconi, patrimonio culinario e culturale dell’Alta Val d’Agri e della Basilicata che dal 1996 ha ottenuto il riconoscimento europeo di Indicazione geografica protetta. La modestia dei fagioli - “Mangia fagioli” - il disprezzo classista che frequentemente, in epoche non remote, veniva riservato ai forzati consumatori di questo umile e generoso legume non ha finalmente più nessuna ragione di sopravvivere. Anzi! E in Basilicata lo abbiamo scoperto per primi. È ormai noto a molti che la presenza dei legumi, insieme al grano, ha praticamente impedito che nelle regioni meridionali imperversasse la Pellagra, malattia gravissima, spesso mortale che dalla seconda metà dell’ottocento fino agli anni quaranta del novecento, ha sconvolto le campagne del Veneto e della Pianura Padana. A Sarconi, per citare un esempio non casuale, la classe dei braccianti, la più misera, traeva sostentamento dai piccoli appezzamenti di terreno tutti seminati a fagioli. La consapevolezza che i legumi, e soprattutto i fagioli, costituivano la sola via di salvezza dalla fame era infatti così diffusa da far sì che, nella zona, le coltivazioni di tali prodotti fossero le maggiormente rappresentate, come ci confermano i dati contenuti nel catasto conciario fin dal 1746. In altre parole, i contadini pur non essendo a conoscenza della composizione chimica dei fagioli, avevano intuito le loro grandi capacità energetiche. Non potendo, per le condizioni misere in cui versavano, nutrirsi di carne, si sfamavano con cereali e legumi cioè con la classica pasta e fagioli: il piatto simbolo dell’alimentazione contadina. In Basilicata, la coltivazione dei legumi, e dei fagioli soprattutto, viene registrata già alla fine del XVI secolo come risulta dai registri amministrativi degli Ordini Religiosi Conventuali dell’epoca. Si tratta, in questo caso dei fagioli americani, arrivati in Italia dopo la scoperta di Cristoforo Colombo del Nuovo Continente. Fino ad allora le specie diffuse, conosciute già dagli antichi romani, erano fagioli dall’occhio, come ci testimonia Apicio nel De re coquinaria. (tratto dal libro: i fagioli di Sarconi da carne dei poveri ad alimento universale di T. Bove, A. Sanchirico, D. Serra 2003).

Il territorio

La zona di produzione dei Fagioli di Sarconi Igp comprende 11 comuni dell'Alta Valle dell'Agri in Basilicata: Sarconi, Grumento, Moliterno, Marsiconuovo, Marsicovetere, Montemurro, Paterno, San Martino d'Agri, Viggiano, Tramutola e Spinoso. I fertili terreni, che si estendono al disopra dei 600 m, le estati fresche e l'abbondanza d'acqua, combinate con le tradizionali tecniche di coltivazione, consentono di ottenere un prodotto inconfondibile. I produttori del consorzio FAGIOLI DI SARCONI Igp, hanno saputo recuperare e conservare ecotipi locali di indiscutibile valore agronomico, dalle qualità organolettiche eccellenti e produrli secondo regole, spesso non scritte, ma conosciute e tramandate di generazione in generazione. Tali regole, riportate nel disciplinare di produzione IGP, notificano che si tratta di una produzione ottenuta secondo gli usi e costumi popolari del mondo contadino, nel rispetto di tradizioni, caratterizzata da metodi agronomici tradizionali che prevedono la rotazione, la consociazione e le concimazioni spesso fatte con concimi organici, in assenza di diserbanti e pesticidi. Gli ecotipi di fagioli, localmente conosciuti con i nomi di ciuoto o fagiolo regina, munachedda, marucchedda, tuvagliedde, tabacchini, verdolini, nasiedd, risi – rappresentano per l’Alta Val d’Agri la storia, la cultura e le tradizioni di un popolo orgogliosamente legato alle proprie origini.

Per sorridere un po’: I FAGIOLI NON SONO FRUTTA NE' STRUMENTI MUSICALI

I vecchi mestieri
Accanto alla resistente civiltà contadina del Mezzogiorno sussistono e sopravvivono i mestieri artigiani più vicini ai bisogni e ai dolori di chi lavora la terra.
Vecchi mestieri oramai estinti, forse ne rimane qualcuno quasi a farci ricordare il nostro passato e la fatica dei nostri genitori che giornalmente vivevano per portare a casa poche lire. Manualmente senza l'ausilio dell'elettronica e della tecnologia ma con il loro ingegno e il loro sudore. L'artigianato regnava, una volta, come l'industria regna ora nei tempi moderni. I campi e l'allevamento davano il modo di vivere ma nello stesso tempo esistevano tanti altri piccoli mestieri che oggi non esistono più. Un esmpio è il mestiere dello stagnino dedito alla lavorazione del rame con la sua ampia produzione di utensili da cucina, alla riparazione di pentole ed altri contenitori che servivano per la produzione dei formaggi (caccavo, caccavotto), le caurar’ fino alla realizzazione delle grondaie. Il rame preparato alla lavorazione veniva scaldato a forno e quando raggiungeva la fusione veniva versato in apposite formelle; quando iniziava a solidificarsi veniva battuto sotto il maglio (spesso in mulini che, utilizzavano la forza motrice dell'acqua corrente) fino ad ottenere una prima sbozzatura. Con le pinze, l'oggetto, veniva messo sul fuoco della fucina e nuovamente assottigliato battendolo poi di nuovo al maglio. Dopo diversi passaggi, dal blocco iniziale si otteneva l'oggetto grezzo, dello spessore voluto. L'utensile di rame strofinato con salnitro sciolto in acqua per ripulirlo dalle scorie diventava del colore rosso naturale. La lavorazione di lastre o dischi di rame già pronti in modo “industriale” entrò in uso sin dall'800, ma gli artigiani continuarono a modellare e martellare per rendere il rame meno malleabile, indurendolo con i molteplici passaggi dalla fiamma alla martellatura. A questa operazione poteva seguire la cesellatura per ottenere l'utensile decorato. Fondamentale per poterli utilizzare era la stagnatura finale che impediva il contatto diretto tra il rame e il cibo durante la cottura ed evitava il rilascio degli ossidi dannosi. Da questa operazione, che richiedeva molta destrezza, (lo stagno doveva essere dato in modo preciso per non creare strati troppo alti o troppo sottili e tirato uniformemente a caldo non lasciando grumi o zone scoperte) prende il nome del mestiere dello stagnino. Oggi lo stagnino, quel personaggio che girava nelle campagne con le sue pentole e a raccomodare quelle bucate con lo stagno, praticamente non esiste più; forse non si trova più neanche lo stagno utile per stagnare che doveva essere puro al cento per cento per non essere tossico.